Tesori nascosti

C’ è una Puglia sotterranea che non è solo quella delle grotte di Castellana, l’ esempio più noto e spettacolare, e che è fatta di simboli e luoghi altrettanto ricchi di suggestione.

In Puglia ci sono anche gli acquedotti e le cisterne,  antichissime fondamenta di mura e torrioni, ossari e chiese rupestri.  Suggestivo e ricco è per esempio il patrimonio della “Gravina sotterranea”. Comprende l’ acquedotto realizzato intorno al 1750 e il reticolo di cunicoli che parte dalla cattedrale ed è lungo due volte il centro storico.

Nel settore jonico, troviamo invece una vera e propria “Via degli ipogei” con i tre esempi, tra loro diversificati dal punto di vista tipologico, del Villaggio di Triglie nel comune di Statte, delle “vicinanze” e dei cunicoli nel centro storico di Massafra e delle cavità artificiali di Laterza.

Per la Puglia c’ è un valore aggiunto che dà al carsismo una connotazione storica: è il rapporto con l’ uomo, che dalla preistoria al basso Medioevo e anche oltre – un fenomeno analogo a quello dei Sassi di Matera e degli aggrottati siciliani di Ispica e della Val di Noto – ha usato la grotta come sua abitazione, fino a plasmarla assumendola come luogo privilegiato del suo rapporto con il sacro.

 

Carsismo in Puglia
Santuari di Puglia
Grotte di Putignano

Meno note ai più delle Grotte di Castellana, le Grotte di Putignano rappresentano un fenomeno di natura carsica nel territorio della cittadina pugliese degno di attenzione.
Di notevole interesse storico e speleologico e’ la “Grotta del trullo” (a 500 m. dall’abitato): si tratta di un bellissimo esempio di carsismo (azione chimica e meccanica delle acque piovane su rocce idrosolubili) con presenza di numerose stalattiti e stalagmiti. Scoperta casualmente nel 1931 durante alcuni lavori di scavo, e’ stata la prima grotta pugliese ad essere attrezzata per visitatori.
Al sottosuolo si accede tramite alcuni trulli. La grotta principale è suddivisa, per comodità, in due parti: la cavità superiore e quella inferiore.
Considerandole insieme, la quota complessiva al di sotto del pozzo di ingresso raggiunge all’incirca i 20 m . Qui termina il percorso “turistico”. Vi é poi, al di sotto di questo, un “percorso speleologico” cui é vietato l’accesso al pubblico, che scende ancora per altri 20 m (oltre i quali si restringe tanto da non essere più praticabile) lungo un tunnel che conduce alla nuova grotta scoperta nel 2006, attraverso una successione di spechi di dimensioni più ridotte rispetto alla cavità superiore, nei quali defluiscono e si disperdono in una miriade di “vene” secondarie, le acque sotterranee che, affluendo dall’alto, alimentano il fenomeno carsico.
Alcune di tali cavità nei secoli (e millenni) passati sono state utilizzate come ricoveri per persone ed animali o come luoghi di culto persino in epoche preromane e paleocristiane. Esempi di tali utilizzo sono la grotta di San Michele in Monte Laureto (a 3 km sulla statale per Noci) con affreschi, altari e una statua dell’Arcangelo realizzata da Stefano da Putignano (sec. XVI) e la grotta della Madonna delle Grazie, situata ai piedi di un’antica masseria in un’ampia zona di boschi.

Grotta di Montenero - Gargano

E’ la grotta più nota dell’intero promontorio del Gargano, nei pressi dell’omonimo monte di Montenero. E’ lunga circa un miglio e mezzo ed è divisa in molti cameroni attraverso cui il passaggio è possibile tramite larghi buchi. Le volte, e le pareti di essi sono rabescate di concrezioni stalattitiche, che formano gallerie, cupole, teatri, allberi ed altre originali figure. L’accesso alla grotta da parte dei visitatori è tramite un cancello. Essa è stata attrezzata con una scalinata ed alcune ringhiere che agevolano il cammino interno che si presenta comunque di facile percorrenza.

Superato l’ingresso ci si immette in una enorme sala lunga 20 metri ed alta 10. Questo ambiente si caratterizza per la presenza di grossi blocchi calcarei cementati da colate calcitiche. Sulla sinistra, a pochi metri dall’ingresso, è visibile un camino che si innalza sin quasi a raggiungere l’esterno. Uno stalagmite di notevole dimensione apre un secondo grande salone domiforme, lungo 20 metri circa e largo 5 metri cerca ed altrettanto alto. caratterizzato da una marcata depressione che una volta ospitava un laghetto.
Lungo la parete di sinistra si apre, all’altezza di 10 metri, un foro di 1,5 metri di diametro che permette l’accesso in una galleria riccamente concrezionata che, dopo 20 metri, curva improvvisamente a sinistra restringendosi in un’angusta strettoia (ampliata poi artificialmente), che conduce in un cunicolo adorno di stalattiti candide, di varia forma e dimensione, che dopo pochi metri diviene impraticabile. Scavalcata la grande frana che segna la fine di questa seconda caverna, si giunge in un terzo ambiente di dimensioni più modeste da cui si dipartono alcune salette.

Le Vore di Barbarano del Capo

Le vore di Barbarano, piccolo comune di Morciano di Leuca, sono due cavità che si aprono nelle calcareniti (tufi), distanti una dall’altra circa 300 m, ed aventi una profondità di 35 m la grande e 25 la piccola. “Vora” è la versione dialettale del termine voragine con cui si indica una grotta profonda e verticale. La vora grande ha un’ampia apertura in superficie a forma di ellisse i cui diametri misurano 24 m di lunghezza e 16 m di larghezza. L’area su cui si trova la vora grande è leggermente depressa rispetto ai terreni circostanti, tanto da esser recintata per ragioni di sicurezza. La vora piccola ha forma ellittica, è lunga 22 m e larga 16 m. Le sue pareti discendono a picco sul fondo. Esse sono formate da sabbioni calcarei stratificati. Attraverso un corridoio che scorre sulle pareti, si può scendere fino alla profondità di 10 m circa.

Le Vore e le Doline del Salento

Le rocce del Salento sono state soggette, nel corso di milioni di anni, ad un particolare insieme di fenomeni, noti come carsismo, che hanno modellato le rocce, producendo una grande varietà di forme, costituendo un patrimonio di grande rilievo.
Le manifestazioni carsiche più note sono sicuramente le grotte, ma è giusto menzionare fra esse anche le cavità di pochi centimetri che “bucherellano” una roccia, oppure le ben più grandi doline.
Le doline sono forme carsiche superficiali di grandi dimensioni (da poche decine ad alcune centinaia di metri), conche chiuse con perimetro circolare. Il fondo delle doline e’ generalmente ricoperto da depositi terrosi e, a volte, esso è topograficamente più basso rispetto alla falda idrica, tanto da affiorare creando piccole aree palustri.
Un’altra forma tipica, ma meno nota, del carsismo salentino e’ quella degli inghiottitoi o vore: sono voragini naturali in cui confluiscono, specie in coincidenza di forti eventi piovosi, pochi e temporanei corsi d’acqua salentini. Le vore sono caratterizzate dall’avere il tratto iniziale sub-verticale. Al loro fondo si crea, dunque, una sorta di fiume sotterraneo alimentato da spettacolari cascate. Si pensi, infatti, che il tratto verticale delle vore e spesso di alcune decine di metri.

La Lama dei Pensieri e la Gravina di Riggio - Grottaglie

Il territorio del Comune di Grottaglie – l’antica Cryptae aliae (“Altre Grotte” – secondo alcuni – italianizzato poi in Grottaglie), detta anche nei documenti Casal Grande – ed in particolare le gravine, rappresentano l’estremità meridionale dell’area caratterizzata dal fenomeno del “vivere in grotta”.
Le più importanti gravine, sono state tutte regolarmente abitate fino al secolo XIII:

  • Riggio.
  • Fantiano (o Lama Infantiana): poco più a sud di Riggio, dominata dalla pineta e dalla macchia mediterranea, con un importante insediamento rupestre medievale nel tratto iniziale.
  • Fullonese (o Foranese): a ovest del paese, conserva numerose testimonianze di grande valore e bellezza, come la Chiesa – cripta dei SS. Pietro e Paolo con un calvario scolpito ed un piccolo eremo rupestre in uno dei suoi rami laterali. Questo villaggio rupestre è stato abitato anche dopo a fine del XIII secolo. Il nome della gravina deriva probabilmente dalla principale attività che vi si svolgeva, ossia l’arte della tintoria condotta da una colonia di Ebrei (dal latino fullo = tintore).
  • Pensieri (o Casalpiccolo o S.Biagio).
La Lama dei Pensieri

E’ una piccola gravina, localizzata a sud del centro urbano. Le pareti di essa non sono strapiombanti, ma solo accidentate.
Gli archeologi vi hanno individuato tracce di abitati capannicoli (in particolare, buche per pali dell’età del bronzo); mentre, sul fondo sono stati raccolti frammenti ceramici riferibili al Bronzo ed all’Età del Ferro, ma anche materiale ceramico di età ellenistica e ceramica sigillata chiara di tarda età imperiale romana.
L’insediamento rupestre medievale della Lama dei Pensieri, noto anche come Casalpiccolo, è costituito da numerose grotte su più piani, molte delle quali ottenute attraverso il riadattamento di cavità naturali.
Il villaggio è composto da circa venti grotte. L’accesso ad esso è possibile attraverso una scalinata, scavata nella roccia, che sbocca nei pressi di una chiesa rupestre. La scalinata di accesso costituiva il terminale di una antica carraia. Il villaggio doveva essere, in passato, protetto da una torre. Numerose grotte, compresa la chiesa, sono oggi prive della facciata, a causa di crolli e di interventi antropici connessi al riuso delle grotte successivamente al loro abbandono.
Le abitazioni più antiche sono quelle localizzate nei pressi del luogo di culto, caratterizzate da una planimetria molto semplice: esse sono composte da un unico vano e da uno spiazzo all’aperto antistante.
Antico appare anche il riutilizzo di alcune tombe a grotticella dell’età del Bronzo.
Nella parte terminale della lama, trova la chiesa rupestre di cui precedentemente accennato. Gli affreschi al suo interno risalgono al XIII secolo e sono affiancati da alcune iscrizioni in greco.
La presenza di un sistema abbastanza imponente di pozzi e cisterne fa ipotizzare un possibile utilizzo dell’acqua a fini produttivi (forse, per la produzione in loco di ceramica).
Certa risulta la presenza dell’allevamento ovino, accertata dal ritrovamento di due paia di cesoie per la tosa delle pecore.

La Gravina di Riggio

La Gravina di Riggio è situata a nord-ovest del centro abitato di Grottaglie. E’ una profonda incisione che si sviluppa per circa un chilometro. La Gravina di Riggio ha restituito tracce di una lontana frequentazione antropica. Infatti, vi sono state rinvenute alcune tombe a grotticella (databili ad un periodo compreso tra il neolitico, l’età del bronzo e l’età del ferro) in continuità con un villaggio capannicolo preistorico di cui si identificano numerosi fori di palificazione scavati nella roccia della gravina (databile in virtù dei reperti ceramici ritrovati ai secoli precedenti la metà del II millennio a.C.). Invece, alcune tombe a fossa scavate sul ciglio della gravina vengono riferite ad un insediamento stabile sviluppatosi tra il VI e il IV secolo a.C.
Sull’origine del villaggio rupestre medievale, pur mancando dati archeologici certi, ci si può riferire ad epoca non anteriore al X secolo.
L’insediamento rupestre occupa l’intera gravina, ma è possibile identificarne tre distinti nuclei: un primo a nord, con residui di fortificazioni; un successivo, nell’area centrale della gravina ed uno all’estremità meridionale del solco erosivo, ai piedi della masseria.
Tra le grotte più interessanti va ricordata la “casa fortezza”, che si sviluppa su tre livelli ed è frutto di successivi riadattamenti di cavità naturali.
Vanno menzionati il “cavernone”, vano naturale con ingresso regolarizzato; la cosiddetta “farmacia”, vano quadrangolare di 25 metri quadri circa, alle cui pareti si possono contare 114 nicchie molto probabilmente destinate all’allevamento dei colombi; il “cenobio”, un complesso di quattro abitazioni bicellulari, collegate tra loro in epoca tarda, una delle quali sembra dotata di servizio igienico; alcuni locali scavati nella parte sommatale della gravina, di fronte al cenobio ed alla casa fortezza, comunemente indicati come “vedette”.
Nel nucleo più meridionale si trovano le due chiese anonime, riccamente affrescate e databili tra il X e l’XI secolo.

La cosiddetta Chiesa Anonima I

La cosiddetta chiesa anonima I, forse dedicata a San Salvatore, è composta da un’aula quadrata munita di sedile in pietra perimetrale. La parete di fondo è caratterizzata dalla presenza di due absidi decentrate, divise da un sottile tramezzo. Le absidi sono contornate da una profonda decorazione a ghiera di tipo arcaico.
La chiesa anonima I conserva alcuni cicli di affreschi, il cui strato più antico è databile (per lo stile stile e dell’iconografia molto simile a quello della pittura cappadoce e siro-palestinese), alla prima metà del X secolo.
E’ pertanto considerabile come uno dei primi esempi di pittura rupestre in Puglia. Il ciclo di affreschi, manca di cicli cristologici completi ed annovera la presenza della più antica Deesis dell’Italia meridionale nella piccola abside di sinistra. Sulla parete orientale compare, per la prima e unica volta in Puglia, la scena di “Elia che dona il suo mantello ad Eliseo”, dominata dalla presenza di un monumentale carro e dalla vivacità dei colori.
Un secondo ciclo di affreschi, posto sulla parete destra della chiesa anonima I, raffigura le immagini di sette vescovi. Esso è databile sicuramente all’XI secolo.

La cosiddetta Chiesa Anonima II

La chiesa anonima II è un esempio di chiesa cimiteriale, con tombe all’esterno, a pianta inversa. All’aula di forma rettangolare, munita di sedile perimetrale e destinata ad ospitare i fedeli e il clero non officiante, si accede attraverso un’arcata al bema a transetto continuo. L’abside è collocata all’estremità destra del bema, caratterizzantesi dalla presenza di cattedra e diaconicon; dalla parte opposta, si trova l’altare identificabile come prothesis.

Le Tagghjate di San Giorgio Ionico

Le cosiddette Tagghjate di San Giorgio Ionico si sviluppano per circa 2 chilometri sul fianco della collina Belvedere: i “tagli” nella roccia tufacea sono spesso profondi anche 10 – 15 metri.
Le Tagghjate (da tagghju, che nel dialetto locale significa, appunto, taglio), dette anche zzuccate, dal nome del particolare piccone utilizzato in passato per estrarre i blocchi di tufo (lo zzueccu), si presentano, tutt’oggi, come una articolata e suggestiva successione di stanze, gradoni, facciate e blocchi torreggianti: un insieme complesso, spesso arricchito da sculture e cavità.
Le Tagghjate hanno come particolarità, inoltre, l’assecondare il cambiamento di luce, passando dal bianco al giallognolo e all’arancio, dal ruggine al rosa, dal grigio al nerastro, a seconda dell’ esposizione, dell’ ora, delle condizioni atmosferiche, aumentando così la suggestione di questi luoghi.
Certamente, uno degli aspetti più affascinanti di questi luoghi è rappresentato dalla presenza di alti blocchi tufacei isolati, come fossero torri di guardia sul paesaggio della cava.

Grotta di San Biagio - Ostuni

Si tratta di una cavità carsica che si apre sullo sperone collinare calcareo soprastante l’omonimo santuario.
Fu scoperta casualmente nel 1950. Vi sono stati rinvenuti numerosi reperti, che fanno supporre che l’area fosse già frequentata nel Neolitico e nell’Eneolitico. Le ceramiche ritrovate si caratterizzano alcune per l’essere in argilla decorata con fasce rosse o brune, altre sono addirittura tricromiche. La loro integrità fa supporre, inoltre, che essi fossero utilizzati per lo più per scopi rituali.
Possono invece datarsi al V-IV millennio a.C. le numerose lame in selce, i punteruoli in osso, asce in pietra levigata, pendagli, un piccolo idolo su conchiglia, un braccialetto in osso ed una pintadera in argilla con motivo spiraliforme a rilievo, che conserva ancora residui di ocra, probabilmente usata per decorare i corpi durante le cerimonie rituali.
Durante l’Eneolitico, individuabile un notevole cambiamento nella produzione delle ceramiche: sono stati infatti rinvenuti grossi recipienti in impasto con decorazione esterna, vasi ad impasto bruno o nerastro, decorati a scanalature e ornati con listelli e pastiglie applicate.
La grotta continuò ad esser utilizzata sicuramente fino alla seconda metà del IV millennio, se non ancora agli inizi del III millennio a.C.

Il Santuario di Santa Maria Maggiore di Siponto - Manfredonia

La chiesa sorge a circa 3 Km. da Manfredonia e costituisce uno splendido esempio di architettura romanico-pugliese, con influssi islamici e armeni.

L’edificio, che si compone di due chiese sovrapposte, occupa una superficie quadrata di circa 18 m di lato. La chiesa superiore costituisce la Basilica vera e propria.

L’unica data documentata è il 1117, anno della solenne consacrazione e della reposizione delle reliquie di San Lorenzo sotto l’altare maggiore, dopo esser stata restaurata e risanata dalle ferite inferte in un passato tumultuoso fatto di incursioni slave, saracene e longobarde: dunque l’antica Basilica di Santa Maria, e non la “novella fabbrica, rampollo dell’antico duomo della vecchia Siponto” – menzionata nelle fonti per la prima volta solo nel 1508 – che corrisponde sicuramente alla chiesa che ancor oggi sopravvive, e che non poté fregiarsi del titolo di cattedrale se non assai tardi.

Essa, impostata tra XII e XIII secolo sull’impianto di un edificio preesistente appartenuto all’area dell’antico duomo, e destinata ad un tormentato iter costruttivo risoltosi nella somma di anomalie ed incongruenze costruttive che ancor oggi possiamo osservare, sorse forse come Cappella intitolata a S. Nicola: è la tesi suggestiva nata dalla rilettura delle fonti e da una serie di raffronti che coinvolgono fatti, personaggi e architetture dell’epoca, prima fra tutti la fabbrica barese di S. Nicola, la cui “cripta ad oratorio” (vasta aula indipendente estesa su un’ampiezza pari all’ambiente superiore) potrebbe aver fornito più di uno spunto nella fase di scavo della chiesa inferiore sipontina.

Essa fu consacrata, come si legge in una lapide commemorativa, il 23 giugno 1675 dal cardinale Vincenzo Maria Orsini.

La chiesa inferiore, o cripta, cui si accede attraverso una scalinata esterna, fu sistemata nel 1708 con i resti dell’antico e prestigioso Duomo sipontino. Così si legge in una lapide murata sulla porta.

Di particolare pregio risulta il portale, costituito da un insieme di archi,tutti finemente abbelliti a fogliame o a intagli geometrici e ben armonizzati fra di loro. Due di essi, sporgenti e sovrapposti, poggiano su mensole sostenute da colonne su leoni.

Sulle mensole due animali più piccoli. Altri due archi, incassati e rinsaldati, mostrano in tutta l’ampiezza le loro decorazioni su materiale più chiaro, conferendo all’insieme vivacità e movimento.

Ai lati del portale, due coppie di eleganti arcate cieche, nelle quali sono racchiuse, ad altezza d’uomo, quattro formelle quadrate finemente scolpite. Più in alto due finestre con le cornici simili a quelle delle formelle, ma di dimensioni maggiori. All’interno la volta a crociera poggia su quattro arcate ogive, sostenute da robusti piloni quadrati. L’effetto che ne deriva è sorprendente: la volta appare, di primo acchito, tutta sospesa sulle colonne e sembra muoversi verso l’alto, come attratta dal cielo. Un effetto di sicura ispirazione orientale che predispone al misticismo e trova il suo culmine nella bella cupoletta a lanterna proprio al centro della volta con otto eleganti finestrelle. L’altare centrale, di stile barocco, è stato sostituito da un sarcofago di marmo greco, rinvenuto dietro il vecchio altare e sormontato da una spessa lastra di pietra. Notevoli due absidi con monofore. Sulla parete di sinistra sono esposti frammenti di mosaici dell’attigua basilica paleocristiana.

La cripta è notevole per le venticinque volte quadrate a crociera e per gli archi a tutto sesto poggianti su venti colonne marmoree con capitelli di forme diverse. Si notano quattro grossi piloni circolari in pietra in corrispondenza di quelli della chiesa superiore.

Nella cripta vi era “la Sipontina”, una statua lignea del IV – V sec. conosciuta anche come la “Madonna dagli occhi sbarrati”: è un’antica statua, che rappresenta a grandezza quasi naturale la Madonna col bambino, in posizione frontale. E’ chiamata “Madonna dagli occhi sbarrati”, perché, dice la leggenda, costretta ad assistere ad un atto di violenza. Viene datata intorno al VI secolo; è conservata nel Duomo di Manfredonia.

Santuario di San Matteo - San Marco in Lamis

Il Convento-Santuario di San Matteo risale al VI secolo. Vi facevano tappa i pellegrini diretti a Monte Sant’Angelo. Nel 1311 passò ai Cistercensi che vi rimasero fino al 1578, quando subentrarono i Frati Francescani Minori. Esso appare circondato da alte mura come una fortezza. Nella Chiesa, che si trova all’interno della cinta muraria, è conservata una reliquia (un dente) di San Matteo e la statua lignea dell’Apostolo, di origine bizantina. Un corridoio molto luminoso conduce alla Chiesa, con la volta a botte, una sola navata e nicchie laterali con altari in stile barocco. Recenti restauri hanno portato alla luce un arco gotico e resti d’affreschi di non facile datazione. I mosaici descrivono il pellegrinaggio di San Francesco alla grotta di San Michele Arcangelo, mentre le vetrate raffigurano la vita e il martirio di San Matteo; una tavola del nono secolo, raffigurante San Matteo, viene portata in processione ogni 21 di settembre. Il convento possiede anche una ricca e antica biblioteca e molte tele dei secoli XVII e XVIII, il museo d’arte sacra e il presepio. Molto suggestivo è il Chiostro di origine cinquecentesca.

Inserito nel Parco Nazionale del Gargano, il Santuario di San Matteo Apostolo è circondato da una zona boschiva tra le più ricche sia per il numero delle specie botaniche che per l’ampiezza degli orizzonti e la varietà del suo paesaggio, conservato sostanzialmente intatto.

Santuario di Santa Maria di Stignano - San Marco in Lamis

Una leggenda narra che San Francesco d’Assisi, nel 1216, passando per la Valle di Stignano, diretto alla Grotta dell’Arcangelo Michele, sia rimasto estasiato per la bellezza dei luoghi e che, commosso, abbia benedetto i frutti di questa terra. La “Via Sacra Langobardorum” ha nel Santuario una tappa densa di altissima spiritualità mariana e francescana.

Il racconto tradizionale narra che Leonardo di Falco, povero e cieco, nelle sue peregrinazioni di mendicante un giorno si addormentò sotto una quercia. Gli apparve la Vergine che gli indicava, tra i rami di un albero, una statua raffigurante la Madre di Dio col Bambino. Il cieco, riacquistata la vista, raccontò tutto ai sacerdoti di Castel Pagano, i quali, in processione, vennero a rilevare la sacra immagine. Sul luogo venne costruita una piccola cappella, di cui parla un documento del 1231, divenuta subito meta di pellegrinaggi.

Agli inizi del XVI secolo, fra Salvatore Scalzo, dopo un lungo peregrinare, insieme ad altri frati, si stabilì presso la cappelletta. Ma poco dopo la piccola comunità abbandonò il cenobio. Nel 1515, Ettore Pappacoda, feudatario della zona, costruì la bella chiesa che ancor oggi si ammira.

Durante il sec. XVI, il Santuario fu dato ai Frati Minori Osservanti: con loro il Santuario cominciò ad essere conosciuto anche in tutto il Tavoliere e sul Gargano. I frati, tra le altre, si facevano apprezzare per la vita densa di preghiera e di opere.

Tra i secoli XVI e XVII, il complesso santuariale e conventuale ebbe la sua attuale conformazione. Fu completata la chiesa con la cupola e il campanile.
Fu rifinita la facciata della Chiesa con la lunetta del portale maggiore raffigurante la Vergine Madre di Dio. Il caratteristico calcare rossiccio della facciata dona, al tramonto, la valle di una calda luce.

Il Convento, costruito intorno ai due chiostri porticati, venne concepito persoddisfare le esigenze dei frati francescani con ampie sale per i laboratori, i magazzini, la biblioteca, i luoghi di riunione, dormitori.

Il Convento di Stignano fu costruito in base ad esigenze innovative: come un luogo dove fosse facile sia l’arrivo che la partenza, dove fosse piacevole restare, dove i pellegrini potessero trovare rapporto umano, ma anche rigore della meditazione.

Fino alla metà del sec. XIX fu uno dei più grandi santuari mariani della Capitanata.

Purtroppo, il declino del Santuario di Stignano iniziò nel 1862 quando venne chiuso dalle autorità a causa del brigantaggio allora imperversante in capitanata.

Riaperto nel 1864, fu chiuso di nuovo poco dopo dalle leggi che sopprimevano gli Ordini Religiosi. Iniziò così per il Santuario un periodo buio, che si concluse nel 1953 con la donazione del convento ai Frati Minori di Puglia e Molise da parte dell’attuale proprietario Francesco Centola.

Molti i lavori di restauro e ristrutturazione che hanno riportato all’antico splendore il pozzale rinascimentale, il chiostro a doppia arcata e la celebre facciata color frumento.

Santuario di Santa Maria di Valleverde - Bovino

A 4 km. dalla cittadina di Bovino, sulla provinciale che scende verso il Cervaro per innestarsi all’antica “Strada di Puglia” che da Foggia porta a Napoli, si scorge a una maestosa chiesa dall’ardita guglia: si tratta del rinnovato Santuario della Madonna di Valleverde. Anch’esso, come molti santuari della Capitanata, è legato ai percorsi dei pellegrini diretti alla Grotta dell’ Arcangelo Michele.

La leggenda narra che, nel 1265, un umile contadino chiamato Nicola sognò di essere andato a far legna col suo asino nel bosco di Mengaga. Ivi una giovane signora di bell’aspetto gli chiese di portargli dell’acqua. Nicola si rifiutò dicendo di essere troppo occupato a raccogliere la legna. La signora lo esortò ad accontentarla. Quando Nicola tornò con la brocca piena, il suo asino era già carico e pronto per la partenza. Poi la signora si rivelò: “Sono – disse – la Madre del Figlio di Dio. Provengo dalla lontana Spagna, da una località chiamata Valverde, dove esiste un mio santuario. Gli abitanti di quella regione si sono dimenticati di me; si sono dati al vizio e al peccato. Ho deciso, quindi, di abbandonarli e venire qui a Bovino. Voglio che qui si costruisca una chiesa intitolata a Santa Maria di Valleverde”. Il povero contadino capì ben poco di quanto gli era stato detto. La notte seguente il sogno si ripeté. Anche la terza notte gli apparve la Madonna: era triste per la poca attenzione che Nicola aveva riservato al suo messaggio. Il giorno seguente Nicola si decise di raccontare tutto al vescovo il quale, arrivato nel bosco di Mengaga nel luogo indicato, vide che con fiori e steli di erba era già stato tracciato il perimetro della chiesa voluta dalla Madonna.
La chiesina fu costruita in soli quattro mesi e subito divenne meta di pellegrinaggi non solo da Bovino, ma anche da tutti i paesi vicini.

Nel 1287 il vescovo Mainerio costruì presso la chiesa un cenobio e l’affidò ai Cistercensi. I monaci vi rimasero fino al 1608.

Nel 1842 il vescovo Francesco Saverio Farace affidò la custodia del santuario ai Frati Minori Osservanti che lo tennero, con alterne vicende, fino al 1901. Il 29 agosto del 1876 la Madonna di Valleverde fu solennemente ornata di corona d’oro dal vescovo di Bovino mons. Alessandro Cantoli.

Nel 1912 (fino al 1921) il Santuario fu dato ai Passionisti. I figli di San Paolo della Croce diffusero ancora di più il culto per la Madonna di Valleverde, restaurarono la chiesa ed ampliarono il monastero.

Attualmente il Santuario è retto dai sacerdoti Vocazionisti, che sulla scia di quanti li hanno preceduti, zelano il culto della Madonna, accolgono i pellegrini, predicano la parola di Dio. A loro si deve il rifacimento integrale di tutto il complesso con una maestosa chiesa che s’erge sulla valle come segno di speranza.

Il nuovo e moderno Santuario, inaugurato il 25 maggio 1987, dal Santo Padre Giovanni Paolo II e consacrato da Mons. Salvatore De Giorgi, Arcivescovo Metropolita di Foggia-Bovino, il 7 giugno dello stesso anno, è ricca di marmi pregiati, di belle sculture e di vetrate a colori, è a pianta triangolare, con i vertici smussati, ed è composta dalla Chiesa, dalla Sacrestia e dalla Cripta, che conserva l’altare e la balaustra in marmo della vecchia chiesa, insieme ad altri cimeli in metallo e in pietra.

Tra le opere d’arte che si possono ammirare all’interno del Santuario, spicca, per suggestione e preziosità artistica, la statua della “Madonna di Valleverde con il Figlio in braccio”. Essa è stata restaurata dall’artista fiorentino Pellegrino Banella, nel 1965, che oltre ad aver scolpito una nuova statua del Bambino, ha avuto il grande merito di aver riportato in luce la policroma scultura originaria, del tardo Duecento, abbondantemente ricoperta, a partire dalla fine del ‘500, da ricche vesti seriche ricamate e dalla leziosa parrucca a biondi riccioli.

Chiesa di Santa Maria delle Cerrate - Squinzano

L’Abbazia di Santa Maria delle Cerrate, quasi sperduta nella solitudine della campagna del territorio di Squinzano, a pochi chilometri da Lecce, venne fondata agli inizi del XII secolo dai Normanni. Una leggenda locale vuole che il tempio sia sorto nel luogo dove Tancredi d’Altavilla, durante una battuta di caccia, ritrovò un’immagine della Vergine ai piedi di una cerva. Da cervo la denominazione (incerta) Cervate, mutata poi in Cerrate.

Oggi si può ammirare, di quello che fu un importante monastero basiliano, tra l’altro sede di un celebre scriptorium, un edificio di culto molto rimaneggiato nelle epoche successive.

Appare caratterizzante della zona salentina la decorazione esterna della Chiesa a lesene sottili e ad archetti, mentre di gusto francese è il ricco portale del Duecento; l’interno della Basilica fu rivestita di affreschi tra XIII e XVI secolo, secondo una continua attività di abbellimento del complesso che, almeno fino al Cinquecento, fu centro importante ed attivo di vita religiosa e culturale.

Il complesso, successivamente, fu trasformato in masseria, tornando solo in tempi recenti ad essere un punto di riferimento culturale per la zona: il restauro della chiesa e degli ambienti circostanti ha permesso, infatti, l’allestimento e la sistemazione di un interessante Museo delle Arti e delle Tradizioni popolari del Salento.

La Chiesa si presenta come una basilichetta a tre navate, delle quali la minore sinistra è raccordata al portico duecentesco. In corrispondenza della navata centrale si ammira un piccolo rosone dal ricco portale istoriato. Quest’ultimo, databile alla fine del XII secolo (o al massimo agli inizi del XIII), appare già al primo impatto influenzato dalla tradizione architettonica francese. La porta d’ingresso è incorniciata da una decorazione minuta ed elegante mutuata dal repertorio vegetale.

Gli elementi figurali dell’archivolto, ben decifrabili e distribuiti su sei conci, raccontano l’Infanzia di Cristo dall’Annuncio alla Nascita.

La posizione dell’Annunciazione, che funge da imposta per l’intero ciclo, riflette il ruolo fondamentale che l’annuncio dato dall’angelo Gabriele a Maria riveste all’interno dell’esegesi dell’iconografica. Riscontro dell’Annunciazione, la Visitazione segue l’iconografia del Vicino Oriente, giocata sul contatto fisico tra la Vergine ed Elisabetta che qui non avviene in modo frontale, essendo subordinato alla struttura convessa del blocco lapideo.

Un listello in chiave all’arco recante la stella, lega e separa nel contempo la presenza dei Magi e la scena successiva della Natività come elemento di mediazione fra Sapienza antica e nuova. Un’atmosfera “familiare”, quasi “quotidiana”, si ripete nella formella conclusiva, dominata dalla figura della levatrice china sul bacile in cui è immerso Gesù. Nella figura di ridotte dimensioni e quasi schiacciata nell’angolo interno della formella si può riconoscere san Giuseppe.

La decorazione plastica è concentrata in particolar modo nella loggia porticata sul fianco della chiesa, edificata durante il Duecento e sostenuta da 24 colonnine sormontate da altrettanti capitelli, tutti differenti tra loro, che offrono al visitatore un ricco repertorio di storie. La decorazione pittorica della Chiesa, invece, si trova parte in situ e parte esposta – dal 1975, dopo essere stata staccata – nel Museo.

All’interno, sono visibili cinque santi con il libro in mano che occupano la parte bassa dell’abside centrale; mentre, nel catino, campeggia l’Ascensione, santi rappresentati a figura intera nei sottarchi; altre scene si dispiegano nel livello inferiore delle pareti perimetrali mescolando tradizione e protagonisti tanto dell’Oriente quanto dell’Occidente. L’altare in stile barocco dedicato a Sant’Oronzo ha purtroppo reso poco visibili, sulla parete destra, parte degli affreschi, sovrapponendosi ad essi.

Santuario della Madonna della Coltura - Pàrabita

La Basilica della Madonna della Coltura si trova a Pàrabita, nei pressi di Gallipoli, a pochi chilometri da Lecce.

L’appellativo della Coltura è sicuramente un’abbreviazione di Madonna dell’Agricoltura.

L’origine del nome è però molto incerta e fa riferimento a due diverse interpretazioni.

La prima rimanda ad una leggenda popolare che narra di un contadino che, intento ad arare un campo con i buoi, trovò in mezzo alla terra un monolite raffigurante una Madonna con Bambino. Il paese, avvisato del ritrovamento, portò in processione l’icona sacra fino alla Chiesa, ma il giorno dopo la pietra scomparve. Fu ritrovata fuori le mura, vicino ai campi ed i parabitani decisero di costruire in quel luogo un santuario. I fatti cui si fa riferimento riguarderebbero la cappella originale del XIV secolo, della quale purtroppo non è rimasta traccia.

La seconda interpretazione parte dall’analisi etimologica del nome originario dell’immagine sacra: S.M. de la Cutura. Si ritiene che Cutura derivi da Cullura, il nome dialettale del pane. In particolare la Cuddura è una torta di pane variamente decorata con uovo, tipica del periodo pasquale. La Madonna della Basilica è dunque intesa come protettrice dei campi o del pane: motivo di sopravvivenza e di benessere delle genti della zona.

Ad ogni modo, il titolo Madonna dell’Agricoltura è tardo rispetto a Cutura, Cultura, Coltura, e compare tra otto e novecento, e per la prima volta è documentato sull’architrave del portale del santuario: virgini mariae ab agricoltura / patronae / dicatum / IV nonas maias mcmXIII.

Nel 1913 i parabitani dedicarono un tempio alla loro Madonna, che appellano la “regina dei campi”.

La Madonna dalla Cultura (ossia del pane), la Madonna della Cultura (ossia dell’agricoltura) sono titoli che, dunque, si identificano in un solo: quello di Madonna della Coltura che dal 1847 in poi divenne compatrona di Parabita, accanto a San Sebastiano e San Rocco.

Santuario della Madonna di Corsignano - Giovinazzo

Protettrice della cittadina di Giovinazzo è la Madonna venerata sotto il titolo di Corsignano. Si fa risalire l’appellativo al casale in cui originariamente fu venerata l’icona con la sua effigie.

La tradizione, che si tramanda dal secolo XVII, vuole che il quadro sia giunto a Giovinazzo nel periodo delle crociate. Si narra, infatti, che fosse stato portato in Giovinazzo da un crociato di nome Gereteo, di ritorno dalla Terra Santa.

Studiosi e critici d’arte concordano nell’ascrivere l’icona al sec. XIII.

Alterata nel corso dei secoli, questa icona fu sottoposta ad un accurato lavoro di restauro nel 1954.

I festeggiamenti in onore della Madonna di Corsignano (le cui prime fonti documentarie risalgono al secolo XVI), si evincono dal testo Del casale di Corsignano in territorio di Giovinazzo e dell’antico suo dipinto, pubblicato nel 1887 dallo storico Giuseppe De Ninno, che riporta la trascrizione di un atto del 1388, con il quale il Vescovo dell’epoca avrebbe proclamato la Vergine di Corsignano patrona di Giovinazzo.

Il popolo di Giovinazzo era solito invocare la Madonna di Corsignano in diverse circostanze, soprattutto nei periodi di siccità, portandone in processione l’icona.

Lo stesso Corteo, ancor oggi, vorrebbe ricordare anche come dalla sua primitiva dimora rurale il quadro della Madonna sia stato traslato in Cattedrale. Finora non è stato rinvenuto alcun documento che attesti quando e come tale traslazione sia avvenuta, certo è però che è rimasto un legame dei Giovinazzesi con il primitivo luogo di culto della Vergine di Corsignano, presso il quale annualmente si recano in pellegrinaggio. A seguito del fenomeno migratorio nei secoli XIX-XX, molti giovinazzesi hanno raggiunto l’America, il Canada, l’Australia, l’Argentina, dove è molto diffuso il culto della Madonna di Corsignano.

Santuario di Santa Maria di Cotrino - Latiano

A Latiano, a pochi chilometri da Brindisi, agli inizi del Cinquecento, la leggenda popolare narra che ad una donna cieca, sorda e muta, apparve in sogno la Vergine. Dopo averla guarita la invitò a recarsi in contrada Cotrino dove le disse che avrebbe trovato un’immagine dipinta su un muro, nascosta fra i rovi. Così, l’immagine fu veramente e prodigiosamente scoperta.

Qui fu dedicata una chiesa alla Madonna. Nel XVII secolo sorse un monastero che, dal 1922, è custodito dai Cistercensi di Casamari.

Accanto alla vecchia chiesetta, nel 1992, è stata inaugurata per i fedeli una nuova e maestosa chiesa, al cui interno è esposta un’effigie della Vergine di Cotrino in stile bizantino.

Ogni anno, il 6 Maggio, viene celebrata la Festa della “Madonna di Cotrino”.

Le prime notizie sulla data della festività risalgono al Seicento: una processione con carattere penitenziale (i devoti portavano sulle spalle tufi, travi o pietre per espiare le proprie colpe e purificarsi, recitando il rosario e innalzando canti) partiva dalle vie del paese per giungere a celebrar messa in contrada Cotrino.

Oggi, i festeggiamenti iniziano il pomeriggio del 4 Maggio quando la statua in cartapesta del XIX secolo, custodita nella chiesa Matrice di Latiano, viene portata in processione a Cotrino; dal 1992 la sera dello stesso giorno si svolge una fiaccolata partendo dalla chiesa della Greca fino al Santuario a cui fa seguito una veglia di preghiera. Il giorno successivo la statua viene riportata, sempre in processione, nella chiesa Matrice. Infine il 6 Maggio si svolge la solenne processione della statua della Vergine per le vie di Latiano.